Da qualche giorno ero alla disperata ricerca, nel mio quartiere, di una sartoria per rifinire l'orlo di alcuni pantaloni. Ieri pomeriggio mi sono imbattuto, casualmente, in una bottega mai vista prima, in una bella strada molto residenziale e poco trafficata. Sono entrato e il sarto, un ragazzo di una trentina d'anni, mi ha accolto con gentilezza e ha subito iniziato a prendermi le misure. Dall'aspetto non sembrava straniero, ma quando mi ha chiesto che tipo di orlo volessi, ho capito che non era italiano, e gli ho chiesto di dove fosse.
E' afghano. Gli ho detto che non avevo mai visto la sua bottega (di cui è il titolare) e ho provato, con discrezione, a chiedergli da quanto tempo si trovasse in Italia e come avesse fatto ad arrivare nel nostro Paese. Mi ha risposto in un perfetto italiano, con molta gentilezza, e mi ha raccontato le peripezie che ha dovuto affrontare nel suo viaggio della disperazione, durato un anno, per poter arrivare da clandestino a richiedere asilo.
Ascoltavo affascinato e con grande interesse la storia del suo viaggio, e lui deve aver compreso la mia curiosità e la mia ammirazione per quello che ha fatto. Gli ho chiesto se fosse mai tornato nel suo Paese, e mi ha risposto di averlo fatto un paio di volte.
Si parla poco di Afghanistan in questo periodo, e ho immaginato che il clima si sia tranquillizzato un po' da quelle parti. Ovviamente mi sbagliavo: mi ha detto che bombe, attentati e una tensione, non minore a quella degli anni in cui l'Afghanistan era al centro delle cronache internazionali, sono sempre all'ordine del giorno. La vita in quei luoghi è sempre molto difficile, e ha un valore molto basso. Mi è venuto in mente, e gliel'ho detto durante il nostro bellissimo dialogo, che qualche giorno fa avevo visto, sul web, delle foto dell'Afghanistan degli anni 60: donne vestite alla moda all'Università di Kabul. Il suo volto si è illuminato: mi ha raccontato della madre, di una stupenda giacca rossa che indossava - e nel descriverla mi rappresentava con le mani la sinuosità delle sue curve - dei suoi lunghi capelli sciolti, e del padre che la accompagnava dovunque, liberamente, con fierezza.
Poi è arrivato il buio. La guerra con i Russi, il regime talebano, la guerra degli Americani, e l'attuale situazione. Oggi l'Afghanistan è un Paese che ha perso pace e libertà. I giovani, che raccontano dei bei tempi vissuti dai genitori, non hanno mai vissuto un solo giorno della loro vita in un Paese libero, in un Paese in pace.
E non hanno modo di frequentare le Università, di istruirsi. Devono pensare a sopravvivere. E vengono scientemente tenuti lontani dall'istruzione, dalla cultura. Vivono in un Paese che si è imbarbarito.
Ho chiesto al mio nuovo amico, pensando alle notizie degli ultimi giorni, alle morti sempre più frequenti degli immigrati, anzi dei migranti, come vengono chiamati adesso, cosa spinga un uomo a privarsi di ogni bene, della propria terra, a rischiare la propria vita, quella dei propri figli, per compiere un viaggio della disperazione verso l'Europa. Mi ha risposto che lì, dalle sue parti, si muore tutti i giorni; tanto vale rischiare la vita per poter avere la speranza di vivere in un mondo migliore. Evidentemente il concetto di vita e di morte, per me e per lui, sono molto diversi. Per lui la morte è un pensiero sempre ricorrente, un evento non solo possibile, ma anche altamente probabile tutti i giorni; per me la morte può essere la conseguenza di una malattia, di un incidente, o di eventi meno probabili ma possibili, come catastrofi, alluvioni, attentati, e via dicendo.
Dopo l'Odissea del viaggio arriva, se va tutto bene, il momento della nuova vita nel Paese che accoglie (si fa per dire) gli immigrati. Non abbiamo parlato dei Centri di accoglienza, dei primissimi impatti da "migranti". Mettendomi nei loro panni, ho sempre ritenuto che trovare un lavoro per loro sia una cosa difficilissima, visto che già non è facile per gli Italiani trovare lavoro.
Il mio amico mi ha detto, candidamente, che trovare un lavoro in Italia non è affatto difficile; e non solo in termini relativi, visto che viene da un Paese in cui immagino sia praticamente impossibile trovare un lavoro. Per lui il problema più grosso è stato la lingua: loro scrivono da destra verso sinistra, i caratteri sono diversi, è tutto ribaltato e tremendamente complicato. Ma lavorare non è un problema: lui ha fatto il cameriere, ha lavorato negli hotel, ha fatto di tutto. A volte lavorava troppo. E adesso è riuscito ad aprire una attività in proprio, e con la fierezza che non aveva mancato di manifestarmi, ha tenuto a enfatizzare il fatto che paga anche un dipendente. Italiano.
Visto che, pur vivendo nello stesso quartiere, non avevo mai notato la sua bottega, gli ho chiesto se avesse bisogno di un po' di pubblicità, di passaparola. Mi ha ringraziato, e con soddisfazione mi ha anche detto che ha troppo lavoro, a volte non riesce a sostenere i ritmi.
Ed è vero: durante la nostra chiacchierata sono entrate almeno 3-4 persone (il 31 di agosto), e si vedeva chiaramente che c'era un bel po' di lavoro da portare avanti. E difatti i miei pantaloni non saranno pronti prima di sabato pomeriggio!
Proprio per non rubargli dell'altro tempo prezioso, ho deciso di salutarlo, promettendogli però che sarei ritornato una volta, con calma, per fare un'altra bella chiacchierata. Mi ha ringraziato, mi ha detto che gli ha fatto piacere parlare così liberamente con una persona così benevolmente curiosa.
Tornando a casa, ho avuto una sensazione incredibilmente bella, è come se avessi letto un libro avvincente o se avessi visto un gran bel film. Invece ho solo ascoltato una piccolissima parte di una vita di una persona incredibile...
Purtroppo la serata è stata guastata: dopo il TG, ho seguito In Onda. Si parlava di immigrati, del delitto di Palagonia, c'era, come sempre, Salvini in collegamento. Parole a vanvera in un Paese senza più umanità.
Le altre impressioni ve le risparmio.
1 commento:
Complimenti! Meriteremmo di leggere più spesso simili riflessioni in un paese troppo facilmente preda di integralismi e razzismo.
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